mercoledì 13 maggio 2009

Fai più domande e limita i giudizi e le interpretazioni (anche riguardo a te stesso) - II parte

Ma passiamo ora… a te.

Sì, proprio a te che stai sonnecchiando di fronte ad internet.
A te e ai giudizi che dai di te stesso (era nel titolo, no?). Poiché quello in cui tutti sembrano eccellere oggi è la conoscenza di se stessi e così il sogno - o l’incubo - del filosofo si è avverato.
Conoscere se stessi è importante come conoscere tutti i congiuntivi, ma sarebbe più importante conoscere quelli dei verbi cambiare o migliorare: “e… se cambiassi?”; “se migliorassi?”.
Comunque qualcuno afferma che il filosofo scherzerebbe quando invitasse a conoscere se stessi.
La domanda è chi è ‘sto se stesso? E come sei arrivata a farti un’idea di come è fatto? E poi chi è che se ne è fatto un’idea: te stessa o un’altra? O te stessa uscita fuori di sè? E mi verrebbe da aggiungere, in pieno stile Statler e Waldorf (che per chi non se li ricordasse, sono i vecchietti del loggione del Muppet Show): ma soprattutto… who cares? Chi se ne importa?

Tutto comincia con l’assunto di avere un carattere, una personalità.
La popolarità che hanno nelle riviste e in Facebook i test come “che tipo di acaro sei?”, dimostra quanto ci piaccia sapere come siamo fatti e, quel che è peggio, farlo sapere agli altri. Così si finisce per dare per scontato ciò che scontato non è, anzi ha, per tutti noi, un costo alquanto elevato.

Quello che la scienza ad oggi ci racconta è che non nasciamo tutti uguali e questo per alcuni di noi è senz’altro una gran fortuna. I genetisti ci dicono che i geni sono responsabili del 50% della varianza dei tratti comportamentali (attenzione, non della presenza o assenza dei tratti comportamentali, ma della loro varianza rispetto alla media). Sull’altro cinquanta per cento si discute: prima si pensava fosse responsabilità delle famiglie, adesso sembra più probabile che sia l’ambiente sociale (es. gruppi di coetanei) in cui la persona cresce.

Tutto questo, per giunta, in base ad alcuni “tratti caratteriali” sulla cui esistenza e misurabilità non tutti gli psicologi sono d’accordo.

Alcuni scienziati, poi, ci dicono anche che il cervello è estremamente plastico ed è possibile sfruttare questa plasticità per rimodellarlo e risolvere così problemi di percezione, di memoria, ossessioni, ansie, disturbi di apprendimento… ma non la calvizie (se non ci credi, guarda la mia foto!).

Infine c’è chi ci mette in guardia nei confronti della “neuro-mania” e del proliferare di articoli che utilizzano le tecniche di neuro-imaging per supportare tesi come “stirare i panni del proprio partner attiva le aree coinvolte nel controllo dell’intonazione” (e qui si spiega perché Umberto Tozzi volesse abbracciare una donna che stira cantando).

Insomma, in attese di notizie certe, come possiamo comportarci?

La risposta è semplice: poiché non siamo scienziati, possiamo credere ciò che ci conviene e comportarci di conseguenza.

“Ehi! Ma stai dicendo che non dobbiamo cercare la verità e saper distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è?”

No, sto semplicemente dicendo che non c’è bisogno di conoscere la fisica per imparare ad andare in bicicletta.

Ti voglio parlare di Norbert Wiener, il padre della cibernetica (tanto non puoi fare obiezioni!).
La cibernetica è la scienza che studia autoregolazione e comunicazione negli organismi naturali e nei sistemi artificiali.
In altre parole perché la gente in inverno apre il riscaldamento se la temperatura si abbassa a 15 gradi e in estate imposta il condizionatore per avere 15 gradi di frescura? Risposta non cibernetica: la gente fa un mucchio di cose idiote.

Comunque il nostro Norbert, dopo l’ennesima visita di un agente assicurativo che voleva piazzargli una polizza, scrisse da qualche parte “we are not things but patterns that persist”, (noi non siamo cose, ma schemi che persistono).

Da questo punto di vista, quello che chiamiamo “carattere”, altro non sarebbe che un insieme di schemi di comportamento ricorrenti, qualcosa che facciamo spesso, magari perché si rivela particolarmente efficace nel risolvere un nostro problema. E la facciamo tanto spesso che finiamo con identificarci con essa, come se noi fossimo quella cosa e non le persone che fanno quella cosa.

La piccola Ludmilla è timida (chi ha insinuato che è per via del nome?).
Se lo sente ripetere a scuola dagli insegnanti e a casa dai genitori, soprattutto a Natale, quando, con buona pace di Gozzano, si rifiuta di salire sulla sedia e declamare “Consolati Maria del tuo pellegrinare/ siam giunti ecco Betlemme…”.
Quello che lei fa, è cercare di evitare quelle situazioni in cui sente gli occhi di tutti addosso e soprattutto quelli della zia Mirella (sempre lei!); come se tutti si aspettassero da lei qualcosa e lei potesse deluderli (la storia è vera, anche se la protagonista non si chiama Ludmilla, bensì Addolorata).
Se qualcuno le chiedesse cosa la preoccupa nel recitare la poesia di Natale, e poi magari stesse anche ad ascoltare la risposta, capirebbe che la sua è una forma di premura nei confronti delle persone a cui tiene (che è poi lo stesso motivo per cui io non canto ai matrimoni dei miei amici).
Ma quant’è più bello forzare la piccola con un “Ludmilla, dai, fai sentire la poesia agli zii! L’hai imparata tanto bene!” per poi far sfoggio di fine sapienza psicologica aggiungendo, rivolti ai parenti “Sapete, Ludmilla è molto timida.” (che, quand’anche fosse vero, sarebbe come aprire le lattine con un rinoceronte - questa metafora non so bene cosa significhi, ma mi sembrava calzante e anche un po’ intelligente).

Ludmilla, sebbene timidamente, cresce e diventa una ragazza magra con gli occhiali, se ha i capelli biondi o rossi, oppure grassa e con le treccine ai lati del viso, se ha i capelli neri e lisci (questo per confonderti le idee circa l’identità di Ludmilla). Non è affatto brutta, ma evita di esporsi e i ragazzi non la notano.
Ora però sa perché questo succede. Glielo hanno spiegato i genitori, le maestre e la zia Mirella: succede perché è timida.
Ludmilla ha ormai appreso, più o meno consciamente, a comportarsi da timida (vogliamo forse deludere la zia Mirella?): a non esporsi, ad arrossire, ad evitare di socializzare e ad imbarazzarsi quando le offrono un drink.

Poi Ludmilla si laurea in Lettere Antiche e trova un lavoro appropriato… alle Poste!
Ha pochi amici che la invitano sempre meno frequentemente alle feste perché lei se ne sta in disparte e sembra non trovarsi a suo agio.
Passano gli anni e, a poco a poco, Ludmilla si rassegna a rimanere zitella perché ormai sa che “è fatta così”, ma soprattutto ha capito che “non può farci niente”.

Ora, non proseguo per non commuoverti, e passo direttamente alla…

… morale: una bambina evita di recitare la poesia di Natale perché non è Gassman e i suoi parenti, docenti di psicologia ad Harvard, le fanno sapere che è timida. Lei capisce che ‘sta roba della timidezza le evita un sacco di problemi. Quando vuole evitare qualcosa, può sempre tirare fuori la sua carta di identità dove è scritto “Ludmilla. Segni particolari: timida.” e la maggior parte delle persone, dopo un po’, accetta che lei sia fatta così e che non ci si possa fare niente perché, come si dice, “è carattere”.
Poi Ludmilla cresce, finisce per adeguare completamente il suo comportamento a questo appellativo e per soffrirne le conseguenze.
Rimane zitella (e non per sua volontà), vive una vita in disparte, consuma i suoi giorni a smistare le lettere e quando muore, per coerenza, non si presenta neanche al suo funerale.

Capisci adesso perché mi viene l’orticaria quando sento le persone dire “sono fatto così” e la cirrosi epatica quando aggiungono, o sottintendono, “non posso farci niente!”?

Mi verrebbe da rispondere: tu non sei fatto così, tu ti comporti così!.
E ti comporti così perché l’hai imparato (almeno al cinquanta per cento).
Ma soprattutto, se anche fossi fatto così, il Grande Cocomero, o qualunque cosa in cui tu creda, ti ha dato un cervello di plastilina dotato di una certa elasticità e, entro certi limiti, rimodellabile per far fronte alle situazioni più disparate, agenti immobiliari compresi. Usalo! Usalo tu, invece di lasciare che qualcun altro (zia Mirella?) ci si intrufoli e lo usi al posto tuo!

“Ma io penso sempre con la mia testa?”, ti sento, purtroppo, obiettare.
E’ questo che pensi? Davvero? E se ti dicessi che questo era esattamente il tipo di pensiero che volevo che tu pensassi? Scherzo, naturalmente non ho questo potere… o sì?!

Comunque ho buoni argomenti per dimostrarti che non sempre pensiamo con la nostra testa e che a volte ci sono altri simpatici “agenti” che pensano con la nostra testa, compresa… la nostra testa!
E mi piacerebbe così tanto dissertare su questo che lo farei anche subito, se non fosse giunto il momento di parlarti delle domande…

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